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L'Associazione WWF Salento ti dà il benvenuto
sul suo sito
CD
CD
La Biodiversità Salentina
2010 Anno Internazionale della
Biodiversità
2011 Anno Internazionale delle
Foreste
18 novembre 2010 -
Domenica 21 ottobre scopri la biodiversità,
escursione a San Cataldo nell’area S.I.C. retrostante la darsena.
30 ottobre 2010 -
Pubblicate le foto di
domenica 24 ottobre.
21 ottobre 2010 -
Sabato 23 e domenica 24 ottobre scopri la biodiversità.
La Vegetazione Salentina
Nel Salento le formazioni boschive
sono limitate a poche centinaia di ettari, distribuiti in modo
disomogeneo sul territorio, su piccole superfici, a volte recintate. Si
tratta di vegetazioni che poco ricordano le formazioni originarie, che
contengono, troppo spesso, specie esotiche, come eucalipti, cipressi,
acacie e pini d’Aleppo.
Nei boschi predomina, nello strato
arboreo, il leccio (Quercus ilex), misto a rari esemplari di
alloro (Laurus nobilis), di quercia virgiliana (Quercus
virgiliana) e, in aree di rimboschimento, di pino d’Aleppo (Pinus
halepensis), cipresso comune (Cupressus sempervirens) ed
eucalipto (Eucalyptus camaldulensis). All’interno del bosco lo
strato arbustivo è composto dal pungitopo (Ruscus aculeatus), da
alcune liane rampicanti come l’edera spinosa (Smilax aspera), il
caprifoglio mediterraneo (Lonicera implexa), l’edera (Hedera
helix) e la rosa di S. Giovanni (Rosa sempervirens). Nelle
leccete ubicate in prossimità di zone umide, come a Rauccio, si incontra
la periploca maggiore (Periploca graeca), una rara specie lianosa
che produce un latice velenoso, utilizzato in passato come topicida.
Nelle aree più diradate e ai margini del bosco, si trovano ulteriori
essenze arbustive, quali il mirto (Myrtus communis), il lentisco
(Pistacia lentiscus), il viburno tino (Viburnum tinus) e
l’ilatro (Phillyrea latifolia). Il limitato strato erbaceo è
costituito dalla robbia selvatica (Rubia peregrina), dal
ciclamino napoletano (Cyclamen hederifolium) da qualche carice e
poche graminacee, di solito nelle radure o ai margini del bosco; si
rinviene anche una tipica felce del sottobosco di leccio, l’asplenio
maggiore (Asplenium onopteris).
A seguito dell’intervento umano, i
boschi sono andati degradandosi in macchia mediterranea (alta e bassa),
che è composta, in massima parte, da arbusti. La macchia alta presenta
le stesse specie delle leccete, ma con un arricchimento delle essenze
che popolano le radure. Presenta, oltre ad esemplari arbustivi di
leccio, essenze come il corbezzolo (Arbutus unedo), l’alaterno (Rhamnus
alaternus) e l’erica arborea (Erica arborea). La macchia alta
presente lungo le fasce costiere è costituita dal ginepro coccolone (Juniperus
oxycedrus subsp. macrocarpa) e dal ginepro feniceo (Juniperus
phoenicea). La macchia bassa, che non presenta più le specie tipiche
della lecceta, è caratterizzata dalla ginestra spinosa (Calicotome
infesta), dal mirto, dalla dafne (Daphne gnidium), dal
lentisco, dall’asparago spinoso (Asparagus acutifolius) e dalle
clematidi (Clematis cirrhosa e Clematis flammula). Una
particolare macchia è quella ad euforbia arborescente (Euphorbia
dendroides), che si trova nella parte più meridionale del Salento; a
questa si uniscono l’oleastro (Olea europaea var. sylvestris),
il carrubo (Ceratonia siliqua), il mirto ed il lentisco.
Le garighe, ulteriore degradazione
della macchia, sono costituite da arbusti non più alti del metro; questo
strato arbustivo è frequentemente interrotto da sentieri dovuti al
pascolamento e, in base alle specie presenti, possono essere
ulteriormente suddivise. Le “garighe a cisti”, sono costituite dal cisto
femmina (Cistus salvifolius), dal cisto di Creta (Cistus
creticus) e dal cisto di Montpellier (Cistus monspeliensis);
a questi si uniscono il rosmarino (Rosmarinus officinalis), il
timo arbustivo (Thymus capitatus), il lentisco, l’erica arborea,
la dafne, la ginestra spinosa e numerose specie erbacee. Le “garighe a
timo arbustivo”, molto diffuse, sono costituite, sui suoli sabbiosi, dal
perpetuino d’Italia (Helichrysum italicum), dal ginestrino delle
spiagge (Lotus commutatus), dallo strigolo di mare (Silene
vulgaris subsp. angustifolia), mentre sui suoli calcarenitici
sono costituite da diversi issopi (Micromeria graeca, M.
nervosa, M. canescens), dall’eliantemo ionico (Helianthemum
jonicum), dal camedrio polio (Teucrium polium); sui suoli
rocciosi calcarei lo stadio iniziale presenta, oltre al timo, l’euforbia
spinosa (Euphorbia spinosa) e la santoreggia pugliese (Satureja
cuneifolia); negli stadi più evoluti si rinvengono la dafne, la
ginestra spinosa ed il lentisco. Nelle “garighe a salvione giallo”
domina, appunto, il salvione giallo (Phlomis fruticosa); si
possono trovare superfici estese di tali garighe sulla costa ionica
orientale, tra Otranto e Punta Palascia e tra Gallipoli e S. Isidoro.
Tra le poche specie presenti ci sono l’issopo villoso (Micromeria
canescens) e il barboncino mediterraneo (Cymbopogon hirtus),
che è una grossa graminacea.
a cura del Dott. Antonio Rodia
Comitato
Tecnico-Scientifico WWF Salento
Centro di
Educazione Ambientale di Rauccio
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Quercia Vallonea -
Per
approfondire leggi la Brochure
Definita un “relitto floristico”
dagli studiosi, venuta tra noi da epoche remote, la Vallonea - il cui
nome scientifico è Quercus ithaburensis Decaisne, subsp. macrolepis (Kotschy)
Hedge - è stata a lungo oggetto di curiosità e di accese dispute
scientifiche su molti suoi aspetti, in modo particolare sulla sua
provenienza e sulla grande dimensione delle ghiande e delle bizzarre
cupole che la caratterizzano e che la differenziano, in maniera molto
marcata, dalle altre specie di querce. [....]
Il suo areale comprende la Grecia,
l’Albania, parte della Turchia e delle coste orientali del Mediterraneo;
in Italia occupa un ristretto territorio nel Salento, nella Puglia
meridionale, in poche e ben delimitate stazioni lungo un’esile zona
costiera nei dintorni di Tricase. [....]
SCHEDA BOTANICA: La quercia
vallonea (Quercus ithaburensis Decaisne, subsp. macrolepis - Kotschy -
Hedge) appartiene alla famiglia delle fagacee nella quale sono inclusi
anche il Faggio e il Castagno. È una specie arborea che può raggiungere
i 20/25 m. di altezza. I giovani rami presentano una fine tomentosità
grigio-biancastra. Le foglie sono semi-sempreverdi, le quali cioè, pur
appassendo permangono a lungo sui rami, fin quasi alla primavera
successiva. Il picciolo delle foglie può misurare dai 17 ai 33 mm., la
lamina fogliare, in genere non piana, di color verde chiaro è priva di
pelosità, lucida superiormente, di forma ellittica o lanceolata di
dimensioni 4-6 x 8-12 cm. Le nervature fogliari sono 6-8 per ciascun
lato, di color giallo-chiaro e ad andamento contorto. Il margine
fogliare presenta 5-7 denti acuti e mucronati. Le cupole, molto
particolari, misurano 3-3,5 cm. di diametro, ricoperte da grosse squame
larghe 5-6 mm.; la ghianda misura circa 2 cm. in larghezza e cm. 4/5 in
lunghezza.
Brochure
sulla Quercia Vallonea del WWF Salento del 2006. Il documento è una
sintesi di uno studio più ampio e articolato in fase di stampa su questa
specie nell'ambito delle attività didattico-educative e di ricerca
scientifica dedicate al 2010 Anno Internazionale della Biodiversità.
a cura del
Prof. Vittorio De Vitis
Comitato
Tecnico-Scientifico WWF Salento
Centro di
Educazione Ambientale di Rauccio
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Le Dune e la Vegetazione
Psammofila
Le coste sabbiose, note anche come
coste basse, formano un habitat in costante mutamento; queste sono
luoghi dove la sedimentazione prevale sull’erosione ed il materiale
eroso e trasportato dal mare viene depositato, poiché è minore l’azione
delle correnti e delle maree, soprattutto nell’area Mediterranea, dove
le grandi maree sono pressoché assenti. Le spiagge sono costituite da
detriti trasportati dal moto ondoso, modellati, levigati, appiattiti e
smussati dal movimento oscillante delle onde. Oltre all’azione del moto
ondoso, sulle spiagge agisce anche l’azione di erosione e di trasporto
operata dal vento, detta deflazione, e quando la velocità e l’energia
del vento diminuiscono si determina la deposizione dei materiali
trasportati, detta sedimentazione eolica; questa produce forme tipiche,
le dune, che sono rilievi di sabbia, con altezza variabile (da mezzo
metro a dodici), che si originano dove il vento incontra un ostacolo,
come una roccia o dei cespugli, subendo così un rallentamento che causa
la deposizione delle particelle più pesanti; tali particelle a seguito
della loro sedimentazione accrescono l’ostacolo e accelerano il processo
di formazione della duna. Le dune vengono poi colonizzate da numerose
piante, dette psammofile (dal greco “amanti della sabbia”), che la
stabilizzano e la cementano, determinando una specifica copertura
vegetale, suddivisibile in una fascia più prossima al mare, costituita
da vegetali pionieri, e da una strutturante, più protetta, che presenta
specie arbustive ed arboree.
Negli ultimi decenni, purtroppo, lo
spianamento delle dune per far posto a strade, ferrovie, urbanizzazioni
e coltivi, sta determinando una profonda alterazione dell’ambiente
costiero, e pertanto, le dune si presentano spesso per lunghi tratti
degradate, e private dell’originaria vegetazione.
Le piante psammofile riescono a
sopravvivere in un ambiente caratterizzato da molte criticità, come
l’incoerenza del suolo, che non trattiene grandi quantitativi d’acqua,
l’esposizione allo spray marino, che fa aumentare la concentrazione di
sali, il forte vento e la forte radiazione solare, che facilita la
perdita di acqua dagli organismi vegetali.
Per limitare l’evapotraspirazione
(ossia l’emissione di acqua allo stato di vapore da parte delle piante)
alcune specie hanno sviluppato organi tomentosi, cioè ricoperti da peli
fitti ed intrecciati; altre presentano foglie carnose, in grado di
intrappolare l’acqua nei tessuti, o rigide, molto spesso spinescenti;
molte altre hanno evoluto apparati ipogei (sotterranei) complessi e
ramificati al fine di rintracciare più acqua possibile.
Tra le piante erbacee, che
caratterizzano tale copertura vegetale, molto frequenti sono il
ravastrello marittimo (Cakile maritima) dai vistosi fiori rosei,
l’erba medica marina (Medicago marina) strisciante e ricoperta da
una folta peluria lanuginosa, la calcatreppola marittima (Eryngium
maritimum) dotata di una formidabile armatura spinosa, il vilucchio
di mare (Calystegia soldanella) dal portamento strisciante, le
foglie coriacee e i fiori ad imbuto, lo sparto pungente (Ammophila
arenaria) con foglie grigiastre e giunchiformi, la gramigna delle
dune (Agropyron junceum) vigorosa e con rizomi striscianti, e
quella delle spiagge (Sporobolus pungens) con rizomi duri, la
carota spinosa (Echinophora spinosa) dal portamento pulvinato (a
cuscino), il ginestrino delle dune (Lotus commutatus)
tappezzante, con foglie grigio-verdi e vistosi fiori gialli, la
violacciocca sinuata (Matthiola sinuata) dai fiori roseo-violetti,
la santolina delle spiagge (Otanthus maritimus) interamente
bianco candido e tomentosa, inclusa nella lista rossa delle piante
italiane a rischio di estinzione, il giglio di mare (Pancratium
maritimum) anch’esso inserito nella lista rossa a causa del continuo
prelievo dovuto ai suoi vistosi fiori bianchi, il papavero cornuto (Glaucium
flavum) dai fiori giallo intenso, l’erba kali (Salsola kali)
pulvinata e dai fiori poco appariscenti, l’euforbia marittima (Euphorbia
paralias) dalle infiorescenze, dette ciazi, verde chiaro, e quella
delle spiagge (Euphorbia peplis) dai fusti rossastri; tra gli
arbusti si incontrano il lentisco (Pistacia lentiscus) da cui si
ricava un mastice multiuso, il mirto (Myrtus communis) molto
aromatico ed ampiamente usato in cucina, l’ilatro comune (Phillyrea
latifolia) simile all’olivastro, il ginepro coccolone (Juniperus
oxycedrus subsp. macrocarpa) resistente allo spray marino, e
quello feniceo (Juniperus phoenicea) più raro e con bacche più
ridotte rispetto al coccolone.
a cura del Dott. Antonio Rodia
Comitato
Tecnico-Scientifico WWF Salento
Centro di
Educazione Ambientale di Rauccio
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I Licheni: le
sentinelle della qualità dell'aria
CHI SONO I licheni sono il
risultato di una simbiosi tra alghe e funghi. Il primo con i lunghi
filamenti (ife) che ne formano il corpo (tallo), sostiene la
microscopica alga (gonidio), le procura acqua e sali minerali, la
protegge dal disseccamento e dalle eccessive radiazioni luminose; la
seconda, dotata di clorofilla, ricambia producendo carboidrati per sé e
per il “partner”.
La simbiosi attira un mondo di
piccoli e grandi animali: farfalle e acari cercano cibo e rifugio,
mimetizzandosi nei talli, gli uccelli utilizzano i lunghi filamenti per
la costruzione del nido, renne, alci e caribù sopravvivono grazie alle
immense praterie di Alectaria, Cladonia, Cetraria,
Evernia e Umbilicaria.
In genere le alghe, unicellulari,
appartengono ai generi Trebouxia, Trentefolia (entrambe
alghe verdi) e Nostoc (un’alga azzurra); la maggior parte dei
funghi sono ascomiceti, rari i basidiomiceti.
Le circa 18.000 specie classificate
sono state suddivise, secondo l’aspetto del tallo, in licheni
crostosi, con corpo sottile e aderente al substrato, fogliosi,
costituiti da lamine a sviluppo parallelo al substrato, con bordo più o
meno inciso, e fruticosi, simili a piccoli
cespugli.
COME SONO FATTI Nelle
strutture più semplici, omeomere, tipiche di alcuni licheni
crostosi, il tallo, ovvero il corpo del lichene, è costituito da un
intreccio omogeneo e indifferenziato di filamenti di fungo (le ife) e
cellule algali, immerso in una massa mucillaginosa.
Nelle forme più evolute, eteromere,
il fungo forma due strati protettivi, detti cortex superiore ed
inferiore; all’interno, cellule algali e lunghe ife fungine con sostanze
di riserva formano due strati ben definiti.
LA PROPAGAZIONE È sufficiente
un colpo di vento perché un lichene si moltiplichi: piccoli frammenti di
tallo con ife e qualche alga, trasportati altrove, possono continuare a
crescere, dando vita ad un nuovo organismo.
La riproduzione sessuata è affidata,
invece, interamente al fungo: dai corpi fruttiferi escono le spore che,
trasportate in un luogo idoneo da vento, acqua o animali, germinano e si
trasformano in ife.
Il fungo appena nato può solo sperare
di incontrare una cellula algale idonea; quando casualmente la incontra,
il fungo la avvolge con una sostanza gelatinosa e si forma così un nuovo
lichene.
I BIOINDICATORI Negli ultimi
decenni, la definizione di indicatore biologico, o bioindicatore, è
riferita soprattutto alle strutture biologiche in grado di indicare,
attraverso correlazioni di causa-effetto tra risposte del bioindicatore
e variazioni ambientali, un’alterazione della situazione ambientale,
riconducibile a una probabile attività antropica, soprattutto di tipo
negativo.
Un parametro irrinunciabile è
l’accertata sensibilità nei confronti di una azione perturbatrice,
chiaramente identificata rispetto a tutta una serie di stress ai quali
l’indicatore è costantemente sottoposto; sensibilità che può esprimersi
con un’ampia gamma di risposte.
I LICHENI COME BIOINDICATORI I
licheni epifiti rappresentano i bioindicatori più utilizzati nella
valutazione della qualità dell’aria.
Questi, pur non essendo capaci di
discriminare tra i diversi tipi di inquinanti, sono in grado di stimare
la qualità complessiva dell’aria risultando sensibili all’effetto di
tutti gli inquinanti contemporaneamente, oltre a quelli derivanti
dall’accumulo di sostanze non facilmente rilevabili con i normali mezzi
di analisi chimica.
L’economicità del loro utilizzo
consente di effettuare un numero molto elevato di rilevamenti, coprendo
così aree molto ampie, rendendo possibile realizzare affidabili carte
tematiche di qualità dell’aria, utili per avere un quadro generale
dell’inquinamento.
I licheni possono essere così
considerati delle vere e proprie “centraline di rilevamento atmosferico
in continuo”.
BIOACCUMULATORI I licheni
sono in grado di assorbire e trattenere sostanze come radionuclidi,
metalli, zolfo e fluoro per periodi lunghi; analizzando i talli è
possibile quindi determinare quali sostanze sono presenti nell’aria e,
prelevando le porzioni periferiche corrispondenti all’ultimo anno di
crescita, anche in quale concentrazione.
BIOINDICATORI I licheni
soffrono per la presenza di alcune sostanze inquinanti, poiché privi di
una cuticola protettiva e di stomi (le minuscole aperture che consentono
di regolare gli scambi gassosi con l’atmosfera), e, dunque, tutta la
loro superficie è esposta all’aria e assorbe senza selezione gas e
sostanze particolate.
Sono però molto resistenti agli
stress ambientali (temperature estreme e siccità) e sono presenti in
qualsiasi habitat e in tutte le stagioni dell’anno.
INQUINAMENTO La loro
assenza può quindi essere dovuta solo all’inquinamento e non a fattori
climatici.
A contatto con sostanze dannose, i
licheni rallentano l’attività fotosintetica e di conseguenza si osserva
una riduzione di vitalità, fertilità, dimensioni e numero degli
individui.
Ogni specie reagisce in modo diverso
rispetto agli inquinanti, configurandosi come perfetti indicatori della
purezza dell’aria.
I biologi hanno messo a punto
numerose formule per calcolare l’IAP (Index of Atmosferic Purity) sulla
base della presenza lichenica in un certo luogo.
CONCLUSIONI Nelle nostre
città vengono continuamente immesse nell’aria sostanze di varia natura,
che ne alterano la qualità, costituendo un serio problema, diretto o
indiretto, per la salute dei cittadini, determinando un peggioramento
complessivo della qualità della vita.
I licheni sono certamente degli
ottimi misuratori dell’inquinamento atmosferico, tanto che oggi la
Lichenologia è in forte espansione proprio grazie al ruolo chiave di
questi organismi nell’analisi ambientale.
a cura del Dott. Antonio Rodia
associazione IL FARO
Comitato
Tecnico-Scientifico WWF Salento
Centro di
Educazione Ambientale di Rauccio
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Etnobotanica salentina: gli usi tradizionali delle piante spontanee nel
Salento
(dal seminario sull'etnobotacica
salentina del dott. Antonio Rodia tenutosi durante la manifestazione
“CIBOSAL” – Lecce, ex Convento dei Teatini, 1 Giugno 2009)
L’etnobotanica La
ricerca etnobotanica raccoglie notizie che vengono tramandate perlopiù
oralmente nei vari gruppi etnici ed investe le espressioni più varie ed
impreviste della cultura e delle consuetudini di un popolo, impedendo
che tale prezioso patrimonio vada perduto e costituendo uno spunto per
moderne ricerche. Molte tradizioni ed usi delle piante spontanee, un
tempo note e diffusi ed oggi quasi del tutto sconosciute ed abbandonati,
affondano le loro radici in un remoto passato e costituiscono un insieme
di conoscenze di estremo interesse botanico, farmaceutico, veterinario,
fitoalimurgico ed antropologico.
L’uomo e le piante spontanee
L’uomo fin da tempi remoti ha distinto ed utilizzato le erbe
eduli e le erbe medicamentose rispettivamente per cibarsi e guarire ed
ha separato i frutti commestibili da quelli nocivi; l’uomo moderno, al
contrario, si ritiene ormai non più bisognoso di alimentarsi con ciò che
spontaneamente la natura produce, e questo lo ha condotto a rimuovere
dalla memoria antichi aromi e sapori naturali, semplici e spontanei,
considerati relitti di una società arcaica da dimenticare.
Un po’ di storia L’uomo
del paleolitico utilizzava quanto l’ambiente gli offriva e non sottraeva
più di quanto poteva essere reintegrato in brevi cicli temporali. Questo
si nutriva di quelle erbe, radici e frutti che ancora oggi è possibile
rinvenire nei campi, nelle macchie e nei boschi. Le specie erbacee
eduli, spontanee, d’Italia finora conosciute sono circa 700, di cui la
metà sono presenti anche in Puglia. Nel I sec. d.C. Plinio il Vecchio
riporta che gli antichi romani si nutrivano con circa 1.000 erbe diverse
ed altre fonti ne citano circa 200. In Puglia, dal Medioevo all’età
moderna, si sono ritenute mangerecce circa 100 piante differenti, oggi
ridotto ad appena una ventina di specie, e di queste ultime solo 5 o 6
sono le piante usate e conosciute maggiormente.
Le cause del degrado
Molte di queste erbe sono di difficile reperimento a causa delle
modificate condizioni ambientali, dovute essenzialmente a sistemi di
coltivazione intensivi, errate modalità di raccolta, uso indiscriminato
di sostanze velenose e diserbanti. Per i frutti delle specie arboree ed
arbustive il degrado è dovuto a disboscamenti e agli incendi; nonostante
dal 1862 al 1985 ci siano stati numerosi provvedimenti legislativi a
tutela del patrimonio boschivo nazionale, esso è passato da
un’estensione di 250.000 ettari del 1870 ai 110.000 del 1985; la regione
Puglia è all’ultimo posto con il 7,7% del suo territorio ricoperto da
boschi, ed il Salento con il 3,5%.
Tutela e conservazione
Alcune specie, tra cui corbezzoli, mirti, cornioli, giuggioli, prugnoli,
sorbi, lazzeruoli, nespoli selvatici ed altre, fanno ormai parte di
un’archeologia arborea o arbustiva, tanto che se ne impone la tutela e
la conservazione come avviene per le specie faunistiche in via di
estinzione e per i monumenti architettonici, artistici e storici.
La fitoalimurgia La
fitoalimurgia è la scienza che si occupa dell’alimentazione con vegetali
“non manipolati”; in alternativa alle offerte della moderna industria
alimentare, essa ripropone quei modi da sempre usuali nelle classi meno
abbienti per sopravvivere e obbligatori, per tutti, in tempi di
carestia. L’espressione risale al sec. XVIII ed è spiegata dallo
scrittore fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti nell’opera Alimurgia,
ossia modo di rendere meno gravi le carestie (1767), dove vengono
indicate le numerose piante utili per sfamare le comunità toccate da
miseria.
L’alimentazione Lo
scarso uso di carne nell’alimentazione non recava danni se era
compensato da abbondanza di vegetali, tanto che i monaci, ad esempio,
bandendo la carne dalle loro mense, perché ritenuta motivo di ogni
peccato, insegnarono a vivere più a lungo, più sani ed in perfetto
equilibrio psichico. In genere l’alimentazione era semplice, costituita
da legumi e verdure, ma talvolta anche elaborata, come la pasta di
trafila; il vino era bevanda solo per grandi circostanze.
Tempi di carestia
Quando era sentita la necessità di ricercare il cibo per sopravvivere,
anche i terreni di solito incolti, spazi considerati di transito, i
pascoli, le radure ed i boschi, diventavano riserve produttive ed
alimentari. Durante le carestie, le ghiande e le carrube venivano usate
come fossero cereali, ricavandone farina per impastare il pane; dalle
bacche del lentisco si ricavava non solo olio per lampade e sapone, ma
anche per condire le minestre. I poveri, quindi, per necessità facevano
largo uso di erbe spontanee e frutti selvatici, come unici alimenti
quando mancavano i piatti-base, costituiti da quotidiani legumi e da
poca carne nei giorni festivi.
Vita quotidiana nel Salento
Quando in campagna si faticava dall’alba al tramonto, spettava alle
donne, rinunciando alla breve sosta della marénna (piccola
colazione), raccogliere erbe spontanee, fiori, radici, tuberi, teneri
virgulti da cucinare o da usare come contorni, aromi e medicinali. La
sera portavano a casa una minestra di fogghj mmiscitàti, di
fòje mmischi, di foje ma∂∂àte, come si diceva nelle aree
provinciali di Brindisi, Taranto e Lecce. Le minestre di tante erbe
spontanee da usare per la cena, unico pasto caldo della giornata, erano
considerate capaci non solo di nutrire, ma anche di preservare dai
malanni, come ricorda il detto: “non c’è erba che guardi in su che
non abbia la sua virtù”.
Oltre le erbe Se c’era
tempo le donne raccoglievano, oltre le erbe, a seconda della stagione,
fiori di camomilla, mazzetti di origano, capperi per la provvista di
casa o da vendere a sera, esse stesse o i loro ragazzini, cercando
acquirenti casa per casa nel vicinato. Gli uomini, quando pioveva e non
era possibile svolgere altre attività o quando il padrone non li aveva
ingaggiati per la giornata, andavano, dove era suolo demaniale o,
comunque, dove era loro consentito, a trarre dal fondo della terra con
l’aiuto di picconi i lampascioni (Leopoldia comosa (L.) Parl.) o
a scovare lumache dal guscio scuro ed opercolo bianco (Helix aperta
Born.). In autunno si inoltravano nei boschi a raccogliere i funghi
o quanto potevano vendere al tramonto nella piazza del paese a chi non
voleva o non sapeva o non poteva eseguire personalmente la ricerca.
I funghi: ieri e oggi
Le famiglie dei più poveri ritenevano che i funghi non fossero utili
alimenti e che potevano solo fornire un aroma di cui si poteva fare
anche a meno; nei secoli passati vennero perciò utilizzati senza essere
molto apprezzati. Destinatari dei funghi erano pertanto i ricchi
signori, da cui ci si aspettava di poter essere ingaggiati per i lavori
nei campi. I funghi oggi sono raccolti indiscriminatamente, e non per
necessità, con danno per la sopravvivenza di molte specie, sia per il
rinnovato gusto dello spontaneo e presumibilmente incontaminato, che per
il piacere della ricerca personale.
Vita familiare e natura
La vita familiare e sociale era marcata da presenze naturalistiche
cariche di significati. Le melagrane erano simbolo di prolificità, e non
potevano mancare nei banchetti nuziali, ma anche simbolo del perpetuarsi
della vita, ed erano presenti nei cùnsuli, i pranzi consolatori
offerti ai familiari del defunto; il sonco, lu zangòni, era usato
per indicare il distacco dei fidanzati e perciò veniva posto sulla
soglia della casa di chi abbandonava; il pranzo rituale che la famiglia
della sposa offriva ai consuoceri nel giorno della presentazione del
corredo (ma anche nel banchetto nuziale) si apriva con la minestra di
fòje creste (verdure selvatiche); frutti selvatici, fatti maturare
sul canniccio o nella paglia, come le sorbe, le pere e le nespole
d’inverno, erano d’obbligo tra li noi cosi, le nuove pietanze,
che si gustavano la vigilia dell’Immacolata, dove non dovevano mancare
gli ultimi fichi d’India, le melagrane e le melecotogne, allineate sulle
mensole dei focolari.
[Bibliografia essenziale:
Ditonno N., Lamusta S., 1997 -
Sapori e aromi da piante e frutti spontanei della Puglia
peninsulare. Edizioni Amici della “A. de Leo”, Brindisi.]
a cura del Dott. Antonio Rodia
Comitato
Tecnico-Scientifico WWF Salento
Centro di
Educazione Ambientale di Rauccio
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Leggi istitutive dei
Parchi Salentini
Riserva Naturale dello Stato San Cataldo D.M.
13.07.77
Riserva Naturale dello Stato Le Cesine D.M.
13.08.80
Norme per l'istituzione e la gestione
delle Aree Naturali Protette nella regione Puglia
(L. Reg. 24/07/1997 n.19)
Istituzione dell'Area Naturale Marina Protetta denominata "Porto
Cesareo"
(Decreto ministeriale 12 dicembre
1997)
Istituzione
del Parco Naturale Regionale Bosco e Paludi Di Rauccio
(LEGGE REGIONALE 23 DICEMBRE
2002, n. 25)
Istituzione del Parco Naturale
Regionale Porto Selvaggio e Palude del Capitano
(LEGGE REGIONALE 15 marzo 2006, n. 6)
Istituzione del Parco Naturale
Regionale Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo
(LEGGE REGIONALE 10 luglio 2006, n.
20)
Istituzione del Parco Naturale
Regionale Costa Otranto-S. Maria di Leuca e Bosco di Tricase
(L. REG. 26 ottobre 2006, n. 30)
Istituzione del Parco Naturale
Regionale Litorale di Ugento
(LEGGE REGIONALE 28 maggio 2007, n. 13)
Istit. della Riserva Nat. Orientata
Reg. Palude del Conte e Duna Costiera - Porto Cesareo
(L. REG. N. 5 DEL 15-03-2006)
Topografia Siti di Importanza Comunitaria (aree SIC) del Salento:
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